Africa e Mediterraneo n. 100 (1/24)
Restitutions: Ethics and Methodologies for a Contested Heritage
€14,00 – €20,00
Sulla restituzione
di Lucrezia Cippitelli, Donatien Dibwe dia Mwembu
Questo numero 100 di Africa e Mediterraneo ha raccolto idee, tensioni, dibattiti intorno alla questione delle “restituzioni”. Superando i confini delle specializzazioni disciplinari, dischiude una tensione che riguarda la politica culturale e soprattutto l’etica, che va molto al di là dell’antropologia, della museologia, della storia dell’arte. Diversi campi di sapere vengono attraversati per mettere in moto un ripensamento che non riguarda solo gli oggetti e la loro storia di provenienza (si veda il saggio complesso di Donatien Dibwe dia Mwembu, Bram Cleys, Els De Palmenaer in proposito) o il modo in cui i musei internazionali che li ospitano dovrebbero comportarsi, delle loro prassi e inquietudini. Le voci che abbiamo raccolto ci fanno ripensare la genealogia delle istituzioni, delle classificazioni, del significato di opere e oggetti. Più radicalmente, dei dispositivi – come il Museo – costruiti a partire dall’età moderna, della forma mentis che li ha costruiti, della colonialità eurocentrica che li informa, oggi, e che è ancora presente in ogni atteggiamento sociale e politico riguardante la relazione tra Occidente e culture post-coloniali, tra cittadini bianchi e cittadini non bianchi. Come dice Ariella Aïsha Azoulay nella sua intervista con Lotte Arndt, bisogna non solo raccontare la violenza, ma opporre «un rifiuto onto-epistemico di riconoscere come irreversibili i risultati, le categorie, gli status e le forme in cui essa si materializza» e che noi oggi diamo per scontati. Nel suo saggio, Lies Busselen sottolinea come la questione della «ricostituzione, cioè il riassemblaggio dell’eredità culturale nazionale nella Repubblica Democratica del Congo, suggerisca altre priorità, al di là del bisogno di una restituzione»: riparazione e giustizia transnazionale. La questione cruciale al centro dei saggi qui raccolti è rispondere al desiderio delle comunità di origine africana di recuperare e riappropriarsi di ciò che è stato loro sottratto ieri. Il tema della restituzione è infatti diventato di grande e recente attualità perché le istituzioni occidentali, in possesso di oggetti che non hanno provenienza chiara e che testimoniano una storia oggi difficile da salvaguardare, hanno mostrato un disagio e un bisogno di liberarsi della pesante eredità coloniale e affrancarsi dalla definizione di “ultimi baluardi del colonialismo”. La ricerca della verità storica ha avviato numerosi progetti di ricerca e intense collaborazioni tra i ricercatori dei paesi diseredati e quelli dei paesi possessori, nonché negoziati tra Stati, ex capitali ed ex colonie. Nel caso molto peculiare dell’Etiopia, Jos van Beurden e Alula Pankhurst ricordano anche la necessità di fare pressione sulle case d’aste affinché ritirino dalle vendite oggetti antichi culturalmente sensibili.
Ma le necessità delle istituzioni bianche, ci dicono studiose e studiosi che hanno contribuito a questo numero, dovrebbero essere messe in secondo piano, e il dibattito dovrebbe finalmente privilegiare le necessità umane, emotive, esistenziali delle comunità derubate, a partire da una serie di studi che riabilitino (o finalmente raccontino secondo epistemologie non occidentali) il significato umano di quegli artefatti. David Mbuthia e Purity Kiura, ricostruendo la storia recente delle restituzioni di opere ora conservate negli Stati Uniti e in Europa, sottolineano che per una «restituzione genuina e una riparazione, è necessario un cambio di paradigma che richiede anche una maggiore sincerità», poiché le dinamiche di potere tra Nord e Sud continuano a dare forma al dibattito. Clette-Gakuba e David Jamar evidenziano che l’enunciazione del termine “restituzione” deve contemplare principalmente non la parola delle istituzioni occidentali, ma soprattutto l’esperienza delle comunità nere e diasporiche: questa deve entrare in gioco, al di là dello statuto degli oggetti, «costruendo collettivamente delle coordinate esterne allo spazio istituzionale bianco». Ehinon E. Arikhan e Philip A. Olayoku rendono evidente il principio di giustizia culturale partendo da «Ibuohien oghę ęmwanta», dove “Ibuohien” significa “verificare” e “ęmwanta” rappresenta la verità come realtà: un principio che parte da una concezione pratica della verità come esperienza vissuta comunitariamente, come un rimedio per l’atto di violazione culturale.
In Occidente ci chiediamo come operare dal punto di vista legale (si veda il saggio di Maria Pia Guermandi) e istituzionale (si vedano i contributi e i case studies delle curatrici e curatore Gaia Delpino, Rosa Anna Di Lella e Matteo Lucchetti sul caso delle tele etiopiche conservate al Museo delle Civiltà di Roma). O privilegiamo l’aspetto storico: quali epistemologie e tensioni politiche hanno portato alla nascita del Museo coloniale? Si vedano il testo di Ambra Cascone sul Museo coloniale di Roma, di Itala Vivan sui bronzi del Benin, di Valentina Lusini sul Museo di Tervuren, in Belgio. Alcune voci, che sono permeabili a pratiche accademiche aperte che vedono la ricerca artistica come spazio epistemologico non disciplinare da cui proporre modelli di complessificazione della storia (si veda il report sul progetto artistico “Decolonizing the Gaze” a cura di Caterina Pecchioli con la consulenza di Enrica Picarelli), si rivolgono a una ricostruzione storica che faccia luce per esempio sulle collezioni private (incluse quelle medicee) di oggetti provenienti arrivati in Europa a partire dal Rinascimento. Si veda il saggio di Vera-Simone Schulz che aspira a una metodologia che aiuti ad inserire questi reperti nel più ampio discorso sulla restituzione.
Cosa ci dicono queste storie spesso non affrontate sulla costruzione di un paradigma di inferiorizzazione degli africani, a partire dall’avvio, un secolo dopo della Tratta Transatlantica? Se le relazioni culturali asimmetriche proprie del colonialismo hanno portato al saccheggio di oggetti culturali, come abbiamo costruito i dispositivi coloniali? In che modo essi agiscono ancora oggi? In che modo dobbiamo decostruire il nostro sguardo per denaturalizzarli e denaturalizzarne l’impatto sulle nostre società contemporanee? In che modo è possibile riparare?
Ma soprattutto: dovremmo ascoltare le prospettive delle comunità derubate. La colonizzazione ha inibito il patrimonio culturale africano, ha disconnesso le comunità di origine dalla comunione con i propri antenati, ha costretto le popolazioni colonizzate, private della loro cultura, ad aprirsi a valori culturali occidentali scarsamente assimilati, per riempire un vuoto. Derubate delle proprie radici culturali, le comunità di origine hanno smesso di essere uno spazio sicuro per i propri membri, dividendosi al loro interno: i membri “corrotti” dall’evangelizzazione e dalla moderna educazione occidentale contrapposti ai “fedeli” del passato tradizionale. Il dibattito sulla restituzione, sulle ricostituzioni, sul riparare, attraverso la riappropriazione dei valori culturali, permette di ricollegare il passato precoloniale, consapevolmente sepolto e dimenticato, a un presente postcoloniale amputato.
La riabilitazione di pratiche culturali tradizionali deve essere un motore di rinascita culturale, di risurrezione di patrimoni precoloniali violati, di cura delle disfunzioni emerse tra le comunità di origine e il loro ambiente. Un esempio su tutti. Secondo i Tabwa (Congo RDC), “la restituzione degli oggetti culturali e il rimpatrio del teschio Luzinga sarebbero un’opportunità per rivitalizzare e migliorare la collaborazione tra i vivi e gli antenati”. I Tabwa sostengono che dalla partenza del Mikisi (la statuetta che rappresenta gli antenati), i Mipasi (gli spiriti) non sono più presenti e attenti alle loro preghiere: da qui originerebbero i persistenti conflitti tra clan. La restituzione porrebbe fine alle guerre che stanno dilaniando le varie tribù e ripristinerebbe l’unità della comunità: le comunità di origine recupererebbero la loro dignità, la loro identità e la loro autenticità, nonché la loro personalità culturale, disprezzata dalla storia.
Cosa viene restituito? Qual è il valore degli oggetti culturali restituiti alle comunità di origine? Queste domande sono l’humus di un dibattito che dovrebbe essere speculare a quello delle società occidentali e interno al continente africano cosiddetto moderno, tra i membri delle comunità di origine, per creare uno spazio di dialogo e di sensibilizzazione sull’importanza dei valori culturali africani in generale e sul loro mantenimento e conservazione, come sottolinea Marcel Ngandu Mutombo. Ripristinare tutti i valori tradizionali distrutti sembra essere la risposta alle domande: “Qual è il futuro delle nostre lingue madri, soprattutto all’interno delle famiglie intellettuali? Come manteniamo i nostri cimiteri? Come conserviamo i nostri documenti d’archivio?” Queste mettono a nudo i nostri atteggiamenti nei confronti dei valori culturali del continente, contribuendo a valutare l’importanza e la legittimità degli oggetti culturali restituiti o da restituire e del rimpatrio di resti umani alle popolazioni africane.
€14,00 – €20,00